Tra i diversi metodi di approccio mi sono ispirata al coaching ontologico trasformazionale, un percorso attraverso il quale il coach aiuta il coachee ad intraprendere un cammino, finalizzato al raggiungimento dei suoi obiettivi, attraverso l’uso delle distinzioni linguistiche. Il coach aiuta il coachee ad assumere nuovi e diversi punti di vista rispetto a ciò che accade, rispetto a ciò che è e che vuole, per trovare nuovi spazi di possibilità e di azione, grazie all’elaborazione di un nuovo modello conversazionale sia con se stesso che con gli altri. Il metodo ontologico trasformazionale ha alla base importanti riferimenti teorici. Innanzitutto la filosofia costruttivista, con la sua concezione della conoscenza come costruzione dell’esperienza personale. Nasce da Heidegger e da Nietzsche e si sviluppa, nel secolo scorso, con Wittgenstein e Maturana, partendo dal presupposto che siamo i creatori della nostra realtà. La “costruzione” sta proprio nella capacità di creare le nostre interpretazioni in relazione alle nostre esperienze in quanto ognuno di noi, dinnanzi ad un determinato evento, ha una prospettiva e una lettura diverse del fatto. Esse nascono dal modo in cui filtriamo e percepiamo gli eventi alla luce delle nostre esperienze, del nostro sistema di credenze e di modelli mentali. È la nostra percezione e interpretazione la chiave di volta. Altro riferimento imprescindibile nel Metodo Ontologico è la filosofia del linguaggio. Anche quest’ultimo è ritenuto generatore di realtà. Va ricordato in tale senso – oltre alcuni grandi filosofi del linguaggio che avremo modo di citare – Rafael Echeverrìa, filosofo, linguista e grande coach contemporaneo, con la sua opera “Ontologia del Linguaggio”.

Perché metodo ontologico?

Il metodo ontologico parte dal presupposto che non esiste una rappresentazione della realtà oggettiva, unica ed immutabile ma ogni individuo genera il proprio mondo, la propria visione del mondo attraverso il processo cognitivo, l’osservazione e l’interpretazione del circostante. Il nucleo centrale di questo modello risiede nell’idea che per aiutare qualcuno a raggiungere le proprie aspirazioni è necessario porsi la domanda ontologica sul senso dell’Essere. L’unico che è in grado di interrogarsi intorno al proprio essere è l’Essere Umano stesso. Questa è la domanda ontologica a cui si lega indissolubilmente questo particolare metodo di approccio. Dunque coaching ontologico inteso come un’arte, una disciplina, che ha lo scopo di attivare un processo di apprendimento che riguarda il nostro Essere.

Il linguaggio: il motore dell’azione

Il cuore del metodo è rappresentato, come dicevamo, dal linguaggio e quindi dalle conversazioni, dal dialogo. Come sosteneva il filosofo Martin Buber gli esseri umani sono esseri che conversano, l’essere umano è per essenza dialogo, si costituisce nelle conversazioni che mantiene con gli altri e con se stesso.   Nelle conversazioni troviamo le chiavi per comprendere meglio chi e come siamo, perché abbiamo determinate difficoltà, qual è la radice della nostra vitalità e delle nostre sofferenze e come possiamo, eventualmente, aprirci e tendere verso una vita che sia più appagante rispetto alle nostre aspettative. Il trait d’union delle relazioni è il linguaggio, sono le parole, le espressioni di ognuno che non bisogna intendere solo come strumento di narrazione della realtà ma come veri generatori di realtà. In questo senso ha dato un contributo decisivo a questa corrente di pensiero il filosofo del linguaggio J. L. Austin. Egli è ricordato soprattutto per la sua teoria generale degli atti linguistici, fondata sulla considerazione che in ogni proposizione si deve riconoscere non solo un significato ma anche – in quanto proferita in una certa situazione e in un certo contesto – una forza pragmatica e creativa, in quanto è espressione del comportamento umano. Il linguaggio lungi dall’essere passivo e descrittivo, diceva –  è attivo e generativo in quanto la parola genera un’azione. Illuminante in tal senso il titolo di una delle raccolte di Austin: “Come fare cose con le parole”… Con il linguaggio dunque produciamo dei veri e propri atti. Per esempio generiamo continuamente:

  • affermazioni e fatti ovvero descrizioni, narrazioni di un dato osservabile, di qualcosa che è già accaduto;
  • opinioni e giudizi ovvero modi di pensare o vedere che non hanno come radice un fatto osservabile e dimostrabile ma stanno alla base delle nostre convinzioni e affiorano dalla nostra esperienza e dalle generalizzazioni che abbiamo realizzato; partono da un punto di vista strettamente soggettivo e personale.
  • dichiarazioni ovvero degli enunciati – che potrebbero essere valide o non valide – che ci orientano verso futuro cioè creano una realtà che prima non esisteva; esse devono essere supportate dall’impegno e dall’azione coerenti al fine di dimostrare di essere allineati con quanto si è dichiarato;
  • richieste ovvero cosa vogliamo dalla vita e dalle relazioni. E da cui ci aspettiamo un’accettazione e una promessa alla realizzazione;
  • offerte, la controparte della richiesta: ciò che sono in grado di offrire, accettare le richieste e promettere la realizzazione.

Il coach, esplorando la situazione attuale che sta vivendo il coachee – e che non lo soddisfa – traghetta lo stesso verso la situazione ideale/desiderata, cioè quella che, invece, il coachee desidera vivere. Cerca di comprendere in che termini il coachee sta interpretando i fatti della situazione attuale, che senso sta dando loro, attraverso l’ascolto attivo ed empatico; verifica la fondatezza dei suoi giudizi, delle sue opinioni, cercando di separare i fatti dalle opinioni; lo aiuta a fare dichiarazioni valide, a definire richieste ed offerte che aprono nuove strade e opportunità e nuove consapevolezze. Nella situazione ideale fondamentale diventa il tempo futuro. Pensare al futuro serve per “fare” nel presente. Le azioni orientate verso il futuro spronano ad agire oggi, rivedere il presente e cambiare la situazione attuale disturbante, spogliarsi del fardello del passato che immobilizza e raggiungere il risultato desiderato. La situazione attuale di ognuno inizia con una dichiarazione, che, come detto, richiede impegno, responsabilità e azione. Shearson Lehman definisce l’impegno: ciò che trasforma una promessa in realtà. È la parola che parla con coraggio delle nostre intenzioni. È l’azione che parla più forte delle parole. È darsi il tempo quando non ce l’hai. È compiere le promesse quando le circostanze sono avverse. L’impegno è la materia con cui si forgia il carattere per cambiare le cose.” La responsabilità è l’abilità a rispondere in un data situazione. Essere responsabili vuol dire trovare soluzioni, attivarsi per la risoluzione di un problema e, soprattutto, comprendere che ci sono degli aspetti su cui si può influire e agire per cambiare loro e …cambiare se stessi. Il primo attore in questo rapporto è il coachee.  È lui che, con l’aiuto del coach, deve acquisire delle responsabilità, deve assumersi un impegno per se stesso, attivare risorse dentro di sé e cambiare il suo status che percepisce insoddisfacente e disfunzionale.

Perché metodo trasformazionale?

Abbiamo detto che è conversando che possiamo trasformare il mondo. Attraverso il linguaggio, dunque, modelliamo il nostro futuro – o meglio i diversi possibili futuri – costruiamo la nostra identità e le relazioni interpersonali. Quante volte le conversazioni con noi stessi o con gli altri sono piene di pregiudizi, opinioni, sentimenti che ci bloccano, ci rendono inermi e ci immobilizzano…. Ecco! Questo è il frutto del nostro modo di osservare gli eventi o per meglio dire il nostro modo di osservare gli eventi è condizionato dal tipo di osservatore che c’è in ognuno di noi……. È qui che il metodo ontologico trasformazionale ci viene in soccorso. Attraverso conversazioni potenzianti ci aiuta ad abbattere le sovrastrutture mentali, scardinare le barriere che ci ostacolano e non ci permettono di ottenere i risultati sperati…e ci trasforma in nuovo osservatore, con nuovi occhiali! Un potente strumento che ci permette di “vedere”: le “distinzioni linguistiche”! Il già citato filosofo J. L. Austin sosteneva che alle grandi domande filosofiche la risposta va ricercata niente di meno che negli usi molteplici del linguaggio ordinario, in quanto basato su distinzioni linguistiche. L’analisi di tali distinzioni è il miglior metodo per affrontare determinate questioni…. Tralasciando le mere speculazioni squisitamente filosofiche ciò che è importante rammentare che il metodo ontologico trasformazionale si serve proprio delle distinzioni linguistiche. È il suo strumento di elezione! Esse sono delle sfumature di significato, assegnate a parole di uso comune, attraverso le quali si ottengono interpretazioni diverse della realtà, che favoriscono un cambio di prospettiva e di azione. Il ruolo del coach nella sessione è proprio quello di comprendere il tipo di osservatore che è il coachee e di chiarire la distinzione linguistica, attraverso domande potenti per generare nel suo linguaggio la capacità di “distinguere”, per permettergli di definire la realtà in modo diverso e, quindi, poter agire in modo diverso, aprirsi nuovi spazi di osservazione…nuove finestre sul mondo! Il coach si pone al “servizio” del coachee. Crede nelle possibilità del suo caochee e trasmette fiducia. Così facendo è più facile che anch’egli possa crederci e realizzare i propri obiettivi. Chi riceve fiducia acquista fiducia. Diceva Rafael Echeverrìa:Se una persona mi ispira fiducia ho l’impressione che saprà prendersi cura di me”. Il coaching ontologico trasformazionale, in questo senso, può diventare un vero e proprio catalizzatore di energia positiva, un trampolino di lancio verso i nostri desideri e i nostri sogni.